“Ossessioni” è una raccolta di quindici racconti. Il primo è intitolato “La roulotte” ed è il lavoro più esteso, è infatti diviso in tre parti. Il protagonista, un individuo sofferente, non adattato e non adattabile, con un senso estetico ipersviluppato per cui è esacerbato dalla bruttezza, dalla volgarità e dall’assurdità, è costretto a narrare in prima persona ciò che gli accade in un autunnale pomeriggio e che sconvolge la sua già tormentata esistenza.
“Suppellettile” è il secondo racconto. Si descrivono in terza persona, le prime ore di una normale giornata di uno studente, che recandosi appunto a scuola si accorge di avere un infiltrato nella mente. Il terzo brano invece, “Il giorno più bello”, racconta la surreale storia di un personaggio ossessionato dal fatto di non avere mai nella sua vita trascorso un giorno bello, memorabile, quello da ricordare. Decide, così di crearselo da sé. I restanti dodici brani, consistono nel rendiconto impersonale e privo di qualsiasi schema narrativo, di colloqui tra due interlocutori non caratterizzati.
La scrittura dell’autore è asciutta, non indulgente a nessun tipo di fronzolo, di ornamento o compiacimento. Egli non confessa neppure che il lago sulle cui sponde si muovono i suoi personaggi ossessionati dalla propria angoscia, altri non è che il Lago Maggiore, lo stesso splendido e così maledettamente malinconico lago che l’ha visto nascere e sopravvivere. Kierkegaard morì ignorando di avere trovato un significato nuovo alla parola angoscia: ”Lo stato perpetuo di inquietudine umana che deriva dalla tensione irrisolvibile tra essere e nulla, tra finito e infinito.”
Questa tensione a volte genere l’ossessione per qualcosa di importante o di stupido, ma che vale comunque la morbosa testimonianza.
La Roulotte
Pareva che ce ne fossero ovunque, appoggiati a ogni angolo di ogni strada, inchiodati a ogni albero di ogni viale, appesi a ogni lampione di ogni piazza. Erano infantili, rifiniti male, brutti. Si vedeva chiaramente che erano fatti a mano. Le lettere visibilmente storte formavano parole scontate, che a loro volta davano alla luce messaggi stupidi e tutti assurdamente uguali. Il tutto era immancabilmente decorato con un’immagine o figura disegnata, o meglio deformata, in modo orribile. Il materiale usato per forgiare tali opere d’arte, poteva tranquillamente essere il cartone scartato dai venditori ambulanti, dopo uno di quei desolanti mercati che tutte le settimane, tutti i paesini che si rispettino, ospitano per la gioia di vecchiette, massaie, derelitti e di chi non ha niente da fare. Anche l’osservatore più distratto avrebbe goduto, ponendosi di fronte a una qualunque di quelle mostruosità, a osservarne i difetti, enumerandoli forse, ripartendoli in gruppi, classificandoli per specie. Ma chi li aveva fatti? Una scolaresca? Un gruppo di anziani ricoverati in un ospizio? Persone appartenenti a qualche inutile associazione o semplicemente degli idioti? Filosofi e studiosi di varie branchie del sapere hanno, nel corso della storia, scritto montagne di libri nell’intento di definire la bellezza o l’orrore assoluti. Sono stati tutti dei falliti, gente che non aveva niente di importante di cui occuparsi. Astratta o fisica che sia, se una cosa è bella è bella, se fa schifo è brutta. La questione, comunque, non va affrontata in questo modo. Se si deve travasare un liquido contenuto in una bottiglia in un’altra bottiglia vuota e non se ne vuole perdere nemmeno una goccia, è consigliabile usare un imbuto. Nella bottiglia vuota si introduce la parte più stretta dell’imbuto e il liquido si riversa in quella più ampia. Non si può fare in modo diverso. Tecnicamente, forse, è possibile compiere l’operazione diversamente, senza usare l’imbuto, ma non si deve fare. Le bottiglie potrebbero cadere e rompersi, il liquido potrebbe andare perduto. No, sarebbe illogico e stupido. La questione non va affrontata in questo modo, non deve essere affrontata in questo modo. Io non devo affrontare la questione in questo modo, loro non vogliono che io affronti la questione in questo modo, assolutamente.
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